DIVENTARE UN LEADER EMPATICO
Emotivamente analfabeti. Ce ne sono, molti; intelligentissimi campioni del calcolo, dell’economia, e anche del management, ma analfabeti in campo emotivo, sono molti anche tra i manager, dal momento che l’intelligenza del cuore non è mai stata una dote particolarmente sviluppata, educata e valorizzata nelle business school pre e post boom economico.
La cultura occidentale ha scelto lo sviluppo dell’intelligenza cognitiva e ha fatto della mente e del logos la propria coppia reale, ignorando che le emozioni sono alla base di ogni comportamento umano; d’altronde, fin dalle scuole elementari si incentiva la logica, l’eccellere come individui, il non fare errori, il dare giudizi ed essere giudicati.
Il modello dell’insegnamento scolastico è lo stesso di quello ideato per la fabbrica della rivoluzione industriale, la disposizione dei banchi privilegia la cultura dell’insegnamento unidirezionale e gerarchico, dove menti che non sanno vanno riempite da chi sa a prescindere da ciò che desiderano sapere, dove la gerarchia è disegnata come le piramidi e le piramidi come il corpo umano stilizzato, la testa in alto, chi pensa, il resto a scendere, come le cascate, dove l’acqua va solo in giù e non può salire.
Allo stesso tempo però si parla di quanto le imprese abbiano bisogno di persone creative, problem solver, persone che sappiamo lavorare in gruppo, positive al cambiamento. Una contraddizione dalla quale si esce a fatica.
Il modello di leadership fondato sul dominio assoluto dell’intelligenza cognitiva e su una cultura basata sull’autoritarismo, che ha generato milioni di persone emotivamente analfabete, ha funzionato bene per molto tempo. Ma oggi, in Italia e nel mondo anglosassone (modello del modello), mentre nelle scuole aumentano a dismisura i bambini “affetti” da disturbi specifici dell’apprendimento (quelli che colorano fuori dalle righe e fanno confusione nelle verifiche a crocette) nelle organizzazioni i manager si sentono spesso inadeguati, confusi, non sanno far fronte ai conflitti interni.
Questo accade perché nessuno si è preoccupato, né nella scuola, né all’università, né tanto meno nell’organizzazione, di insegnare a riconoscere, gestire le emozioni proprie e altrui, e sviluppare un sistema di conoscenza basato anche sulla capacità di lavorare bene insieme.
L’intelligenza sociale o ce l’hai o nessuno te la insegna.
Le prime a rendersi conto che è ora di prendere provvedimenti sono le organizzazioni ad alto tasso di innovazione, in cui ci si rende conto che è entrato del tutto in crisi il modello manageriale basato sull’autorità, sulla figura del leader forte, dell’”uomo che non deve chiedere mai” (a cui purtroppo anche molte donne si sono adeguate), su chi rimuove i conflitti interni pensando che non incidano sulla performance delle persone, su chi sa perché tutto è scritto.
In mancanza di risposte certe, in un contesto dove ciò che funzionava prima non funziona più, in presenza di una generazione di giovani che non riconoscono più l’autorità in quanto tale per la posizione che ricopre, in questo contesto di mercato instabile e opaco è divenuto fondamentale per i manager imparare a fare domande giuste, ascoltare i propri collaboratori prima di dire loro cosa si deve fare (dal momento che a volte non lo si sa), raccogliere idee trasversali per trovare soluzioni nuove, far circolare le idee e le pratiche, aprire nuove finestre di senso là dove il senso non lo si trova più in ciò che prima sembrava ovvio.
Tra le otto qualità più importanti dei migliori dipendenti di Google, le competenze di STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) arrivano ultime. Ai primi posti troviamo: essere un buon coach, comunicare e ascoltare bene, possedere intuizioni sugli altri, avere empatia e sostegno per i propri colleghi, esercitare critical thinking e problem solving, essere in grado di creare connessioni attraverso idee complesse.
Ascolto, empatia, intelligenza del cuore, autorevolezza, capacità di motivare gli altri a partire da ciò che li motiva - e non solo motiva il manager -, coraggio nel mostrare le proprie fragilità, capacità di creare un ambiente “emotional safety”, emotivamente sicuro, sono dunque le qualità di un nuovo tipo di leader che poco ha a che fare con i modelli di leadership da manuale e molto con la sensibilità, la consapevolezza di essere sempre “in relazione con”.
Le imprese si internazionalizzano, nelle organizzazioni iniziano a entrare i millennials, alla catena di comando ora ci sono finalmente anche le donne, mentre fuori il mercato spinge e, come dice Simon Sinek nel suo libro Start with why. How great leaders inspire to take action, “ è molto difficile trovare oggi sul mercato un prodotto o un servizio che i clienti non possano comprare da qualcun altro all’incirca allo stesso prezzo, della stessa qualità, con lo stesso livello di servizio e con le stesse caratteristiche”.
Dunque, bisogna fermarsi e farsi domande molto serie: quello che ho imparato, nel modo in cui l’ho imparato, è sufficiente? Vale ancora? Come posso motivare le persone che lavorano con me anche in presenza di scarsi risultati, di crisi e assenza di una direzione certa? Da dove devo partire per attuare un cambiamento, prima di tutto in me?
Tra le principali caratteristiche di coloro che hanno un’alta Intelligenza emotiva viene individuato l’essere perenni apprendisti, life-long learners che costantemente sentono il bisogno di crescere, di farsi domande, di imparare cose nuove e in nuovi modi, persone disposte a cambiare le loro idee, spesso vecchie, per aprirsi a idee nuove che possono funzionare meglio.